Giovedì Santo

  

Testi per meditare il giovedì santo

adorando l’Eucarestia

 

         L'eucarestia è Dio che viene a mendicare in noi uno spazio.

 

         Quando si tratta dell'eucaristia, dobbiamo sempre avere in mente la parola di Gesù a Maria di Magdala: "Non mi toccare" (cf. Gv 20, 17)! Come se Gesù risorto dicesse: ''Ascolta, prima di tutto. Ricordati di tutto ciò che vi ho detto. Ascolta, il Verbo non inganna!". Uno degli inni eucaristici di san Tommaso d’Aquino ("Adoro te devote") canta: "La vista, il tatto, il gusto si sbagliano a tuo riguardo... Solo l'udito è affidabile per trovare la fede".

         (...) L'ascolto della Parola allora non è un preliminare, ma è la sostanza stessa della comunione. Il soggetto di tale ascolto è ancora la comunione, perché non ascoltiamo nello stesso modo quando siamo insieme e quando siamo da soli. La parola è un cibo, cosi come il pane condiviso è anche una parola.

 

         Il gratuito, il troppo pieno (pensate a Cana), l'eccesso, la dismisura sono il marchio di Dio. Quando Dio dona, dona sempre con sovrabbondanza, una misura "pigiata, colma e traboccante" (Lc 6, 38). Quel pane e quel vino che gli presentiamo, è tutta la nostra vita, i nostri amori, le nostre pene, i nostri sforzi, i nostri successi, le nostre gioie, le nostre paure. Ciò che abbiamo costruito con le nostre mani. Ciò che abbiamo distrutto, rotto. Non è più per chiedere perdono che facciamo questo, ma perché, ecco, tutto ciò è là, c'è. E bisogna che anche questo sia trasformato. Ovunque sia celebrata l'eucaristia e soprattutto là dove si aggira l'infelicità, come in carcere, ciò che viene presentato è la vita degli uomini nella sua interezza.

         L'eucaristia è una questione di vita o di morte. Tutto sarà salvato, o tutto sarà perduto. "Ciò che non è donato è perduto", amava dire padre Ceyrac, gesuita in lndia.

         Il memoriale dell'istituzione (dell'eucarestia, ndc) viene fatto al passato, ma Gesù parla al presente. Siamo nella camera alta con Cristo e gli apostoli. Siamo addossati al Signore, nel posto del discepolo "che Gesù amava", il discepolo senza nome proprio, con cui possiamo identificarci. Siamo nell'inquietudine della tensione palpabile che circonda Gesù e nell'impossibilità di concepire la sua perdita. Siamo nell'ebetudine e non comprendiamo quello che Gesù annuncia.

         Si parla di transustanziazione per designare la trasformazione del pane e del vino presenti sull'altare in corpo e sangue, presenza reale di Gesù Cristo. Ma mi sembra che ciò di cui facciamo memoria sia anzitutto una prima "transustanziazione" davanti alla quale è bene sostare: quando Gesù si offre nell'ora della sua passione, il suo sangue versato "diventa" vino e la sua carne trafitta "diventa" cibo. Egli diventa cibo per questo mondo che ha fame. Libagione affinché noi non abbiamo più sete. Questo vuol dire che, dopo il dono fatto da Gesù della propria vita fino a perderla, non ci sarà più bisogno di versare il sangue. Il meccanismo del sacrificio è disattivato. Egli vi pone fine. Tutto è veramente compiuto. Il sacrificio a cui siamo invitati è ormai un "sacrificio vivente", come ha bene espresso Paolo: "Vi esorto dunque, fratelli, per la tenerezza di Dio, a presentargli il vostro corpo (cioè l'intera vostra persona) come sacrificio vivente, santo, capace di piacere a Dio: è questo, per voi, il giusto modo di rendergli culto" (Rm 12, 1). Basta il sacrificio di Cristo.

 

         Non è più necessario che noi versiamo il nostro sangue. L'oblazione a cui siamo chiamati non è eroica, è per tutti, ancora una volta: diventare gli uni per gli altri un'offerta vivente, un dono. Cristo disattiva ogni violenza ed il suo sangue versato si tramuta in vino di nozze, mentre il suo corpo trafitto, Verbo fatto carne, si fa cibo. L'offerta nutre colui a cui viene offerta. Ciò che Dio non aveva cessato di dire nella prima alleanza: "Tu non volevi né offerta né sacrificio, i miei orecchi hai aperto; non chiedevi né olocausto né vittima, allora ho detto: Ecco, io vengo" (Sal 40, 7-8).

 

         Le parole di Gesù, "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue", riprese dal celebrante, sono pronunciate davanti al pane donato ed al vino sparso e nel medesimo momento Cristo le dice su di noi. E' una parola che designa l'infima briciola, quell'immenso pane da poco che è l'ostia, nella quale Gesù si ritrae, ma designa altrettanto la sua Chiesa che la riceverà. Queste parole ci designano. Al di là delle frontiere, esse suturano tutte le lacerazioni.

         Tutto si ribalta, perché in questo momento ciò che era vero della sua vita diventa vero per le nostre vite. "Voi farete questo in memoria di me", "Farete questo": è già un invio, una forza per domani e per subito, quando ritorneremo a casa.